Oggi pomeriggio, come un qualsiasi altro pomeriggio di svago, mi ritrovo nella sala giochi Las Vegas con S., H. e B. Quel posto, vivace e chiassoso, pulsa di energia e colori che sembrano voler afferrare ogni singolo frammento della mia attenzione. La musica ad alto volume, i videogiochi brillanti, e le risate dei giocatori si mescolano in un concerto di allegria, creando uno sfondo perfetto per un pomeriggio di sfide e risate tra amici.
Ma nel bel mezzo di questo scenario festoso, la calma viene spezzata da un episodio che mi lascia senza parole. S., il cui entusiasmo è sempre contagioso, viene travolto da una scoperta inquietante. Mentre era al bagno con B., ha notato delle scritte sui muri, e una di queste, scritta con caratteri grandi e ben visibili, riporta il suo nome. La reazione di S. è stata esplosiva. Come un vulcano in eruzione, ha urlato il mio nome, accusandomi di un atto che, francamente, trovo assurdo e ridicolo.
Mi guardo intorno, confusa e incredula, mentre i presenti alla sala giochi ci osservano. B., per qualche ragione che solo lui conosce, sembra divertirsi, come se sapesse qualcosa che noi ignoriamo. Ma non c’è nulla di divertente in questa situazione. Non c’è niente di comico nel trovarsi accusata di un'azione che non solo mi sembra infantile, ma che va contro tutto ciò in cui credo e come mi percepisco.
Inizio a difendermi con fervore. Non ho mai scritto niente sui muri. Non è nel mio stile, non è nella mia educazione, e soprattutto, non è mai stato il mio modus operandi. Perché mai dovrei scrivere “S. sei spaziale” su un muro del bagno di una sala giochi? Mi sembra un’idea non solo infantile ma priva di ogni logica. Eppure, nonostante il mio tentativo di chiarire la situazione, S. rimane incrollabile nella sua convinzione. Non capisce, non vuole capire. Perché dovrei mai coinvolgermi in una simile stupidaggine?
La mia frustrazione cresce. Siamo passati da un’ammirazione reciproca a una sorta di conflitto surreale, e tutto per una scritta su un muro. Mi viene in mente: fino a ieri, mi considerava matura, riflessiva. Ora, per una questione di dettagli insignificanti, la mia reputazione sembra andare in frantumi. Siamo davvero così fragili? Così inclini a giudicare e a essere giudicati per le cose più piccole e superficiali? Mi sento un pezzo di carne messa in discussione per un capriccio del destino.
Non mi è nemmeno stato concesso il beneficio del dubbio. Quando ho proposto di confrontare la mia calligrafia con quella delle scritte sul muro, S. ha rifiutato. È come se avesse deciso che la verità fosse un diritto che non mi spettava. Mi chiedo: è per i suoi occhi verdi che mi trovo a essere accusata? Perché in fondo, la verità che scaturisce da queste situazioni sembra sempre avere il colore dei sentimenti non detti, delle gelosie non confessate.
E così, mi allontano con Hika, mentre la sensazione di ingiustizia e incomprensione mi accompagna. La domanda che mi tormenta è: chi si crede S. di essere per pensare che la mia vita possa essere influenzata da tali assurdità? Crede davvero che la mia dignità e la mia integrità possano essere scosse da una scritta su un muro, da un capriccio di un momento?
No, caro S., la vita non funziona così. Non si giudica una persona senza prove, non si riduce una persona alla sua azione più stupida, e non si usa la propria immaginazione come unico strumento per costruire accuse. No, non funziona così. E non lo permetterò.
La verità è, e rimane, un bene sacro, troppo sacro per essere calpestato da accuse infondate e pregiudizi. Questo pomeriggio, invece di essere un momento di divertimento e amicizia, si è trasformato in una riflessione amara sulla fragilità dei legami umani e sull’importanza di mantenere la propria integrità di fronte alle ingiustizie.
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