Ero lì, una domenica mattina, accompagnata dalla famiglia di mio padre in chiesa. L’aria era impregnata di incenso e di solennità, come se il sacro avesse deciso di avvolgere ogni angolo di quel luogo. I miei occhi vagavano tra le pareti bianche, decorate con simboli sacri, i banchi di legno lucido disposti ordinatamente, e l’altare, un trionfo di candele e fiori freschi. Un quadro perfetto, che invitava alla riflessione e alla pace. Ma non ero lì per questa pace; ero lì per confrontarmi con un tormento interno che non conosceva tregua.
Il prete, vestito di bianco, si ergeva davanti alla congregazione, un profeta di parole tranquillizzanti. Iniziava con una preghiera, un invito alla comunione e alla riflessione. Lo ascoltavo mentre parlava di amore, compassione, speranza—temi universali, astratti, eppure così profondamente umani. Il suo tono era pacato, le sue parole sembravano danzare nell’aria, un balsamo per le anime tormentate. Ma c’era un tema che non riusciva a toccare la mia anima in modo lieve: il perdono.
Il perdono. Che parola insopportabile, che concetto elusivo. Quando il prete iniziava a parlare di perdonare, di liberarsi dai rancori e dalle ferite, sentivo un nodo stringersi nella mia gola. Il suo discorso, intriso di nobili intenzioni, mi faceva venire voglia di urlare, di dirgli che il perdono non era un regalo facile da concedere, che per me era un viaggio in territori inaccessibili. Come si può chiedere a qualcuno di perdonare chi l’ha ferito così profondamente? Come si può chiedere di abbandonare il dolore e la rabbia che hanno scavato solchi nel cuore?
Dentro di me si scatena una guerra, un tumulto di emozioni che non riesco a domare. Non parlo spesso di questa ferita, ma ora non posso fare a meno di ammettere la mia battaglia. Ho sette anni quando la separazione dei miei genitori travolge la mia vita. Quella ferita, che una volta era una fessura, è diventata un abisso in cui sono precipitate le mie speranze e le mie gioie. Mio padre, con la sua partenza, ha portato via non solo un pezzo di felicità che credevo mio diritto, ma ha lasciato un vuoto che non riesco a riempire.
La rabbia, il risentimento, sono compagni costanti del mio cammino. Non riesco a perdonare mio padre. Non riesco a dimenticare il dolore che ha inflitto, la sensazione di essere stata tradita, abbandonata. Ogni giorno combatto con questo conflitto interiore. Il desiderio di perdonare si scontra con una ferita così profonda da sembrare infinita. È una lotta continua tra la volontà di liberarmi del peso e la difficoltà di lasciarlo andare.
Il perdono può davvero portare alla liberazione o è solo una chimera? Mi chiedo se un giorno sarò capace di guardare al passato senza che la rabbia e il dolore mi accechino. Solo affrontando questo conflitto potrò sperare di trovare una pace interiore, un momento in cui il dolore diventa solo un ricordo sbiadito, accettato e integrato nella mia vita. Ma fino ad allora, il cammino è ancora lungo e tortuoso.
Le parole del prete, il suo appello alla pace e al perdono, rimangono lì, come un’eco lontana e quasi incomprensibile. E io? Io rimango qui, a fare i conti con le mie ferite, con la mia incapacità di perdonare, e con il desiderio ardente di trovare finalmente il mio equilibrio. Il perdono, per ora, resta una promessa sospesa, un orizzonte distante che continuerò a inseguire.
Forse un giorno, quando la tempesta dentro di me si placherà, riuscirò a guardare al passato con occhi diversi, a piangere senza dolore e ad accettare ciò che è stato. Ma fino ad allora, mi confronto con la mia verità e con la mia solitudine interiore, cercando di scoprire se, alla fine, il perdono è una via possibile o solo una miraggio lontano.
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