I locali riaprono le loro porte, ma le tavole non sono più affollate. Ci si siede lontani, guardandosi con sospetto, come se quella distanza fosse l'unica cosa che ci tiene al sicuro. La paura non se ne va, nonostante le serrande alzate e il tintinnio dei bicchieri che cercano di restituirci una parvenza di normalità. Ma la normalità è stata distrutta, e ciò che resta è solo un'eco lontana di ciò che era. Amsterdam è silenziosa. Non il silenzio calmo e riflessivo che talvolta accompagna i tramonti estivi sui canali. No. È un silenzio carico di tensione, di incertezze che non sappiamo come colmare. Le strade sono vuote, le risate sono spezzate, i sorrisi nascosti dietro strati di tessuto.
Sento il peso delle restrizioni, eppure so che sono necessarie. Ma chi stabilisce il confine tra ciò che è giusto per la salute e ciò che distrugge le nostre anime? Le vite che abbiamo perso non sono solo quelle numerate nei bollettini. Sono anche le vite che viviamo in sospensione, aspettando che qualcosa cambi, che torni la vita di prima. Ma so che quel "prima" non tornerà. La riapertura dovrebbe rappresentare un nuovo inizio, ma per molti è solo un’illusione. Ci hanno detto che dobbiamo abituarci alla "nuova normalità", ma mi chiedo cosa ci sia di normale nel vivere senza abbracci, senza strette di mano, senza vicinanza. Il vuoto è palpabile. E mentre sorseggio un caffè in un bar semi-deserto, mi chiedo quanto tempo passerà prima che il mondo recuperi davvero la sua anima.
La scienza ci ha salvati, è vero. I dati, le curve, i protocolli. Ma chi ci salva dall’isolamento emotivo che ci consuma? Non si può misurare la perdita di contatto umano con una statistica. Le cicatrici di questo tempo rimarranno a lungo, incise non solo nei corpi, ma nelle menti.
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