Ci sono giorni in cui tutto sembra un peso insostenibile. Lo senti? Lo senti il vuoto che ti scava dentro? È come un’ombra fredda, una mano invisibile che ti preme il petto. Non è il dolore di un colpo diretto, no. È quel tipo di dolore che cresce lentamente, senza sosta, che non puoi afferrare né respingere. Si insinua nella tua mente e ti stringe piano, come se volesse assicurarsi che non te ne andrai. Ed è proprio lì che nasce la disperazione.
Oggi è il 2014. L'anno in cui il mondo osserva l’Africa spezzarsi sotto il peso dell’Ebola. Migliaia di vite perse. Corpi che si accumulano come numeri in una statistica fredda e senza cuore. È come se l'intero continente stesse soffocando sotto la morsa di una malattia invisibile, crudele. Eppure, fuori da quel continente martoriato, la vita va avanti, indifferente. La gente va a lavorare, prende il caffè, ride con gli amici. Ma cosa significa vivere quando gli altri muoiono senza motivo? Io penso a quelle madri, a quei padri che guardano i loro figli cadere uno ad uno. Penso alla solitudine, alla paura. A quel senso di impotenza che deve divorare ogni fibra del loro essere. E poi mi chiedo, com'è possibile che tutto questo avvenga? Che l'umanità guardi e passi oltre? Quante volte siamo stati indifferenti? Quante volte siamo stati spettatori silenziosi di una tragedia che si consuma lontano da noi?
Ogni giorno, accendo la televisione, e tutto è coperto da un velo di apatia. Ma quando vedo quelle immagini – i volti dei bambini emaciati, i medici esausti – sento qualcosa spezzarsi dentro. Eppure, mi ritrovo a spegnere il televisore, a scorrere la timeline del telefono, come se nulla fosse accaduto. Lo facciamo tutti, no? Ma perché? Perché ci siamo ridotti così? E allora, per un istante, mi siedo e lascio che la sofferenza mi travolga. La mia, quella di loro, quella di tutti. Sento le lacrime arrivare, un flusso lento, quasi controllato. Eppure, non riesco a fermarle. A volte, abbiamo bisogno di piangere per il mondo. Per tutto quello che non possiamo controllare, per tutto quello che avviene senza motivo. È un pianto che non chiede spiegazioni, ma che trova radici in un dolore antico, profondo.
Il problema non è solo il virus. È l’indifferenza. È la nostra incapacità di sentire davvero, di vivere davvero. Siamo spettatori di vite che non comprendiamo, che non vediamo. E forse è questo che mi sconvolge di più. Il non fare nulla, l'accettare tutto come inevitabile. Come se la sofferenza fosse un destino segnato. Ma non lo è. Non deve esserlo. C’è un modo per cambiare tutto questo, per ridare un senso alla nostra umanità? O siamo destinati a chiudere gli occhi, a ignorare ciò che ci circonda? Non lo so. Forse sì, forse no. Ma so una cosa: oggi, piango per loro. Oggi, piango per me. E non me ne vergogno.
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