Amsterdam. Dicembre. Il vento spinge le onde dei canali come a voler ricordare che qui, anche il Natale ha un suo suono diverso. È un suono di porte che si chiudono velocemente, di passi che risuonano nel silenzio, di luci che appaiono e scompaiono come respiri. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stato vivere un Natale lontano da casa, lontano da ciò che mi ha sempre definita. E ora, eccolo qui, il mio primo Natale in Olanda.
Sono con lui, il mio ragazzo. Ci siamo trasferiti qui pochi mesi fa. L’inizio di una nuova avventura, un nuovo capitolo che non avevamo pianificato, ma che in qualche modo sembrava inevitabile. L’Olanda ci ha chiamati, ed eccoci qua, camminiamo tra le vie strette di Amsterdam, la città che da poco chiamiamo «casa». Le luci di Natale che si riflettono sull'acqua scura sembrano un miraggio lontano, quasi come se volessero ricordarmi il calore che non sento.
«Non ti senti strana?» mi chiede lui, interrompendo il mio silenzio. «Strana? È poco. Mi sento persa. Sradicata».
In Italia, il Natale ha sempre avuto un suo ritmo: le famiglie che si riuniscono, le case che profumano di biscotti e di tradizione. Qui è tutto diverso. È un Natale in cui il vento soffia forte e il cielo sembra tenere tutto sospeso. Mi chiedo se anche la gente qui si sente sospesa, come me.
Lui mi guarda, lo vedo che cerca di capire, ma forse nemmeno lui riesce a tradurre ciò che provo. Gli sorrido, ma è un sorriso che sa di incompleto. Lo sa anche lui.
Amsterdam ci ha accolto, ma ancora non ci appartiene. Ci proviamo, ogni giorno. Le nostre giornate sono fatte di adattamenti, di piccoli gesti che cercano di affondare radici in una terra fredda. Non è facile, ma è una sfida che abbiamo scelto insieme.
Eppure, oggi, sotto le luci natalizie, sento il vuoto. Quel vuoto che solo la distanza sa dare. Un vuoto che grida.
«Andiamo a casa?» chiede lui. Casa. Ma quale casa? Qui, in questo appartamento che sa di transito, o lì, in quella parte di me che ancora sente l’Italia come l’unica realtà? Non rispondo. Non serve. Ci avvolgiamo nei cappotti, stretti l’uno all’altra, mentre il freddo di dicembre ci spinge a camminare più in fretta.
Vorrei dirgli tante cose, ma le parole non escono. C’è qualcosa di sacro, quasi solenne, nel vivere il Natale lontano da casa. È come se ogni passo, ogni respiro, fosse un rituale intimo di accettazione. Di perdita. Di crescita.
Mentre camminiamo lungo il canale, mi fermo. Mi giro verso di lui e mi accorgo che in fondo non è il Natale che manca. No, non è questo. È la sensazione di non avere un posto. Di non sapere più dove appartenere. Amsterdam è bella, ma è un'estranea. È come un quadro che puoi ammirare, ma che non sai ancora decifrare.
Sospirando, lo guardo di nuovo. Ecco cosa significa essere qui, ora, a vivere questo Natale lontano. È una rinascita, forzata e necessaria. Non ci sarà nessun albero addobbato con gli stessi vecchi ornamenti di sempre. Nessun pranzo di famiglia, nessun brindisi che sa di casa. Ma c’è lui. E io. E questa città che, lentamente, comincia a scavare il suo spazio dentro di me, anche se lo fa in silenzio.
Camminiamo ancora. Lui mi stringe la mano e ci inoltriamo in strade sconosciute. Le luci di Natale continuano a danzare sull'acqua e io sento una strana, nuova pace. È un Natale diverso, certo. Ma è anche il nostro Natale. Un Natale di sguardi e silenzi, di passi leggeri e pensieri non detti.
E forse, in fondo, è questo il regalo più grande che potevamo farci: accettare il cambiamento, anche quando fa male.
Mentre ci avviamo verso casa, sento una canzone in lontananza. È “Bianco Natale”, suonata da un vecchio musicista vicino a un ponte. E' in okandese, ma io riconosco la melodia. Le note si perdono nell’aria fredda, e per un attimo, mi sento di nuovo vicina a ciò che ero. Ma solo per un attimo.
Poi, il vento di Amsterdam mi riporta qui.
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Eclipse
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