Il mondo trema, e con esso trema l'anima di chi osserva. Mi trovo a Milano, lontana dal Giappone, ma il dolore che sento sembra vicino, tanto vicino che quasi posso toccarlo. Fukushima. Un nome che solo pochi giorni fa mi sarebbe sembrato esotico, remoto. Oggi è sinonimo di paura, di devastazione, di una minaccia invisibile che si insinua lenta, silenziosa, eppure inesorabile. La terra si è ribellata, scossa da un terremoto che ha scardinato certezze e speranze. E poi, come se non bastasse, l’acqua. Un’onda che inghiotte tutto, che non fa distinzione tra carne e cemento, tra vita e distruzione. Il cielo sopra Fukushima è grigio, pesante, carico di una pioggia che nessuno vorrebbe bagnasse la propria pelle.
Mentre il mondo guarda, impotente, io mi ritrovo a pensare a quella donna, una figura evanescente, sola, in piedi davanti alla distesa di macerie che un tempo erano la sua casa. La sua vita. In lei rivedo me stessa, persa tra i detriti di un'esistenza che non sarà mai più la stessa. È questo, penso, il vero volto della tragedia: non il cataclisma in sé, ma ciò che lascia dietro di sé. Quel silenzio assordante che riempie il vuoto. Fukushima non è solo un luogo. È uno stato d’animo. È il simbolo della fragilità umana, di quanto poco basti per spezzare l’equilibrio che ci illudiamo di controllare. E in questa fragilità c’è qualcosa di dolorosamente bello, come la crisalide che si spezza per far nascere una nuova forma di vita. Ma quale vita può nascere da una terra contaminata, intrisa di radiazioni?
È il paradosso dell’esistenza: moriamo e rinasciamo ogni giorno, a ogni respiro. Ma ci sono eventi che ci segnano, che ci marchiano a fuoco, e non ci lasciano mai più. Fukushima è uno di questi eventi. E io, in questo momento, mi sento come se stessi respirando il suo stesso veleno. Non so cosa mi aspetti nei giorni a venire. Non so se la contaminazione si fermerà, se le persone che ho visto in televisione, disperate, ritroveranno la loro pace. Ma una cosa la so: questo dolore non deve essere dimenticato. Deve trasformarsi in forza, in consapevolezza. Ecco, è qui che vedo la speranza. Nella resistenza. Nell'essenza stessa dell’essere umano, capace di sopravvivere alle peggiori avversità. La tragedia ci spezza, sì, ma ci tempra anche. E oggi, mentre osservo le immagini che giungono da quell’angolo di mondo devastato, sento una determinazione crescere dentro di me.
Il mondo non si ferma. Noi non ci fermiamo. E anche Fukushima, un giorno, si rialzerà.
Background musicale: "Lontano Lontano" di Luigi Tenco
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